The Greatest Showman: la libertà è un’arte

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Siamo nei primi dell’Ottocento, Phineas Taylor Barnum è orfano di padre. Nonostante l’infanzia dickensiana che ha vissuto, crede ancora nel sogno americano e la giovane Charity, suo amore di gioventù, sceglie di seguirlo e assecondare le sue visioni, al punto di sposarlo e creare una famiglia con lui. Per Barnum nulla è mai abbastanza e, soprattutto, ogni singolo sogno deve essere realizzato. Ne è un esempio il Museo delle stranezze che edifica nel centro di Manhattan lasciando i newyorkesi sgomenti (ma non poco incuriositi). In fondo, quando P. T. Barnum sta arrivando lo fa come un ciclone inarrestabile.

Quanti di noi hanno un sogno nel cassetto, magari da anni, ma non trovano il coraggio di fargli vedere la luce perché bloccati da un’inutile insicurezza che non ci permette di dire a gran voce This is me?

Phineas Taylor Barnum, The Greatest Showman, è il simbolo perfetto dell’urgenza umana di esprimere sé stessa facendo spettacolo e, al contempo, rendendo la propria vita il più grande spettacolo del mondo.

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Il più grande spettacolo del mondo, infatti, è proprio il nome che il vero Phineas Barnum, imprenditore e circense statunitense vissuto tra il 1810 e il 1891, aveva scelto di dare al suo circo: tre piste e quattro palcoscenici per una capienza di ventimila spettatori.

Nel suo film – uscito solo pochi mesi dopo la chiusura del The Greatest Show on Earth dopo 146 anni di tournée – il regista Michael Gracey sceglie di sfumare gli aspetti di politico, editore e businessman tipici dell’uomo Barnum, per mostrare, tanto ai poveri disgraziati che si esibiranno nel suo circo, quanto al pubblico in sala, quelli di visionario per nulla abituato ai “no”.

Nel circo di Phineas Taylor Barnum, ognuno trovava sempre qualcosa che rispecchiasse il proprio gusto; ecco spiegata la scelta del personaggio di Hugh Jackman di dare spazio a persone completamente diverse tra loro, non solo nell’aspetto fisico ma, anche e soprattutto, per estrazione sociale: si pensi alla scena del ballo tra la trapezista di colore (Zendaya) e il signor Carlyle (Zac Efron) – socio in affari di Barnum stesso e rampollo di una famiglia borghese – nato nell’agio ma incapace di trovare il proprio posto nel mondo.

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Se i due si fossero incontrati nella società moderna, probabilmente il loro amore avrebbe avuto una possibilità di sopravvivere alla differenza di razza e religione, ma alla fine dell’Ottocento era molto difficile, «per le donne ancora di più».

La scelta degli attori, in modo particolare dei protagonisti, non è casuale: molti di loro provengono da Broadway o – come nel caso di Jackman – nascono come attori di musical teatrali. Come è noto, infatti, anche Zac Efron, al momento della scelta del cast, non era nuovo al musical.

La lavorazione del film aveva preso il via già nel 2009, salvo poi riprendere solo sette anni più tardi (novembre 2016) per una serie di vicissitudini che hanno fatto sì che il cast si andasse definendo solo in corso d’opera. Non si può negare però che, nonostante i rallentamenti provocati alle riprese, il cast sia davvero di alto livello: da non sottovalutare le interpretazioni di Zendaya (più nota come cantante che come attrice), di Rebecca Ferguson, che nel ruolo del soprano Jenny Lind ha potuto sfoggiare le proprie qualità vocali, e di Michelle Williams nei panni della moglie del protagonista.

Per costruire The Greatest Showman, Gracey ha scelto di partire da una sceneggiatura di Jenny Bricks facendola, però, riscrivere da un grande nome come Bill Condon, già autore di adattamenti cinematografici di musical come La bella e la bestia.

Nonostante il lavoro di Michael Gracey possa reclamare il merito di aver portato sul grande schermo un gruppo di personaggi in cui chiunque può riconoscersi, questa non è di certo l’unica chiave del successo del musical da lui diretto: gran parte della fama di questo genere di prodotti cinematografici, in effetti, è da attribuirsi alle canzoni.

In questo caso, gli undici brani che sono andati a comporre un album che ha riscosso un tale successo mondiale da raggiungere la vetta delle classifiche in paesi come USA, Giappone e Australia, sono stati scritti da un duo di tredicenni (Pasek e Paul) e composti da Johnn Debney, già nominato agli Oscar per la colonna sonora di La passione di Cristo, che a oggi può vantare anche un Golden Globe vinto proprio grazie a This is me come miglior canzone originale.

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Parlando di This is me, Hugh Jackman ha dichiarato: «C’è qualcosa in quella canzone che mi prende dentro ogni volta», aggiungendo, poi, che in occasione nella presentazione del pezzo ai produttori non avrebbe dovuto cantare (in seguito a un intervento al naso) ma che non ha saputo resistere.

Che sia o no un caso il fatto che The Greatest Showman sia uscito al cinema solo sette mesi dopo la chiusura del vero circo del signor Barnum, che ha segnato la fine di un pezzo di storia americana, di sicuro si tratta di una pellicola destinata a essere ricordata come l’ultimo “spettacolo al cinema” di un artista che, sempre guardando al risvolto economico delle proprie idee, ha rivoluzionato il concetto di “arte” e che i più giovani potrebbero paragonare a personalità del calibro di Steve Jobs, Bill Gates o Elon Musk.

Certo, il pubblico che si è recato nei cinema in occasione dell’uscita di questo film è molto diverso rispetto a quello che accorreva agli spettacoli di Phineas Taylor Barnum tra Ottocento e Novecento, ma ciò che conta è che l’arte, qualunque forma abbia e chiunque la faccia, continui a «rendere gli altri felici».

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